Il brodo che viene dal quartiere

Nella cucina blu abbiamo la fortuna di vivere in un quartiere. Di quelli belli, vivaci. Orgogliosi della loro storia. Tanti ragazzi ci tornano, mischiandosi a chi, qui, è nato. A Londra la chiamano "gentrification", a Milano "costano meno gli affitti". Fino al 1923 è stato un paese, con le proprie frazioni. In una di queste sono cresciuta e sono cresciuti i miei genitori. Il bello del quartiere sono i negozi, la panetteria affacciata sulla piazza, il calzolaio, la bottega del formaggio e quella di sementi. Intanto aprono le immancabili gelaterie bio e, alle ciclofficine, seguono le ninnolerie etniche. Ogni secondo sabato del mese nella parte storica, quella oltre il ponte della stazione (sì, abbiamo anche l'immancabile stazione anni '20) spuntano le bancarelle del mercato agricolo e artigiano. Loro i miei fiori, io l'ape.


Torno a casa carica di frutta e verdura, tra cui lo storico remolaccio. Decido di fare il brodo. Prendo quattro piccole patate, quattro carote, una gamba di sedano, un remolaccio, una zucchina, due cipolline bionde così piccine da stare tra pollice e indice, qualche foglia di senape fresca e fili di prezzemolo. Lavo e mondo gli ortaggi e li metto a bollire in acqua fredda con un cucchiaino di semi misti di pepe, uno di grani del paradiso e mezzo di black mustard, qualche granello di sale grosso. Porto a bollore e lascio andare per una quarantina di minuti. Quando spengo, lo lascio sopire. Lo conserverò in frigo, non ho ancora deciso come utilizzarlo. Potrei fare un risotto delicato o una semplice stracciatella. Oppure preparare una vellutata aromatica di piselli. Non so. Anche sul destino delle verdure non ho ancora una soluzione. Magari un pasticcio "salvacena"?


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